Per Geoff Dyer la fotografia non è altro che un mezzo attraverso cui avviene il racconto delle piccole e grandi storie dell’umanità. Come la scrittura e il jazz, anche la fotografia sa andare oltre il significato del soggetto dell’opera, ma è necessario affinare la propria sensibilità.
Nell’Infinito istante, è una sorta di ordine entropico a guidare il viaggio nelle sterminate possibilità del mezzo fotografico. Dyer prova a distinguere quei fili che, come in un romanzo, legano generazioni di fotografia che pur non essendosi mai incontrati entrano in contatto incuranti del tempo e dello spazio grazie alla ripetizione dell’identico. Raccoglie quindi gli scatti di Alfred Stieglitz, Paul Strand, Walker Evans, André Kertész, Dorothea Lange, Diane Arbus e William Eggleston e scopre come il fotografare le stesse scene e gli stessi oggetti (panchine, cappelli, mani, strade, finestre, negozi di barbieri, fisarmonicisti) crei tra di loro un dialogo costante, una conversazione a più voci. Il suo è lo sguardo di uno scrittore che non possiede una macchina fotogra ca per sua stessa ammissione, e che può quindi abbandonarsi all’esperienza intima e personale dell’immagine.
La fotografia cambia il modo in cui vediamo il mondo, Geoff Dyer cambia il modo in cui guardiamo entrambi.
«Ho tentato, per quanto mi è stato possibile, di essere aperto a tutto “come un pezzo di materiale non esposto, sensibilizzato”.»
«Dopo averlo letto, la vita sembra più grande.» John Berger
«Dyer mette a fuoco una serie di intuizioni sagaci e originali sul lavoro di un gruppo di artisti su cui sembrava si fosse già detto tutto.» The New York Times
Traduzione di Maria Virdis
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