Norman Manea è la voce errante di tre grandi drammi collettivi: l’Olocausto, il totalitarismo comunista, l’esilio. Ha vissuto sulla sua pelle la deportazione in un Lager in Transnistria, la Romania staliniana e la dittatura di Ceausescu. Infine, stanco della censura e di una tragedia civile sempre pronta a capovolgersi in tragicommedia umana, ha trovato rifugio a New York, dove vive e insegna.
Se attraverso la scrittura ha saputo condensare i fantasmi di un’epoca rovinosa e violenta, è perché non ha mai cessato di considerare la letteratura come un rifugio, una fortezza di parole entro cui «coltivare qualcosa che non sapesse di stereotipo». Esiliato nel suo stesso paese, costretto alla farsesca, deformata quotidianità della dittatura, e infine esule negli Stati Uniti, ha eletto a patria la lingua romena, scrivendo opere indimenticabili come Il ritorno dell’huligano e Varianti di un autoritratto.
Corriere dell’Est è il risultato degli undici anni di profondo scambio intellettuale e umano tra Manea e Edward Kanterian. Dal loro dialogo nasce un libro che oltrepassa i generi, sfiorando il mémoir, il saggio letterario, l’autobiografia, e attraversa il tempo e lo spazio in un viaggio che da Bucarest, passando per Berlino, giunge fino a New York. Qui Manea stringe rapporti con Saul Bellow e Philip Roth, con cui dà vita a un’amicizia nutrita di profonde differenze e sorprendenti affinità, che dura ormai da trent’anni.
In queste pagine, Manea instaura un confronto serrato con i maggiori letterati romeni, come Emil Cioran e Paul Celan; o come Mircea Eliade, letto, ammirato e insieme criticato per l’antisemitismo e il sostegno al regime. Attorno al pensiero di Hannah Arendt coagula le proprie riflessioni sull’identità e il futuro del popolo ebraico. Lascia spaziare il suo sguardo sulle minacce e le trasformazioni del presente: l’elezione di Donald Trump, il terrorismo islamico, il conflitto in Medio Oriente. E osserva con gli occhi dell’esule e del poeta un’America vorace, burlesca e infinitamente contraddittoria, capace di sprofondare chiunque nella solitudine della folla, di accecare con la luminescente immaturità della metropoli. Un’America approdo di una democrazia impura, fatta di monotoni e deludenti compromessi che sono il «volto che le persone le imprimono»: la traccia di un’imperfetta e fragile libertà.
Norman Manea è nato nel 1936 a Suceava, in Bucovina (Romania). Per le sue origini ebraiche, tra i cinque e i nove anni è stato internato con la famiglia in un Lager ucraino dal regime fascista romeno. Ha vissuto la sua giovinezza nella Romania stalinista del dopoguerra e, dalla metà degli anni sessanta, ha sperimentato la dittatura di Ceausescu. Pur attratto dalla letteratura, si è laureato in ingegneria a Bucarest e ha esercitato la professione fino al 1974, dopodiché si è dedicato interamente all’attività di scrittore. Nel 1986 ha scelto l’esilio e oggi vive a New York, dove insegna letteratura al Bard College. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra i quali il Guggenheim Grant (1992), il National Jewish Book Award (1993), il Premio Nonino (2002), il Premio Napoli (2004). Fra le sue opere, tradotte in più di dieci lingue, il Saggiatore ha pubblicato Il ritorno dell’huligano, Clown: Il dittatore e l’artista, Ottobre ore otto, La busta nera, Il rifugio magico, Al di là della montagna, Conversazioni in esilio e Varianti di un autoritratto.
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